Docente di lettere, filologo di alto profilo, poeta per vocazione, Salvatore Brasile ci regala la sua approfondita riflessione su “che cosa” sia la poesia partendo da un’osservazione su Alda Merini. La poetessa sente di aver inaugurato un canto, avendolo respirato da bambina, nelle sillabe materne e paterne. – Un respiro che avrebbe dilatato e poi annientato i muri perimetrali di quel manicomio, dove ella visse per vent’anni, solcando, esplorando e impadronendosi di quella vastità senza la cui percezione il vero artista, che sia poeta, musicista o altro, non potrebbe esprimersi liberamente. Impadronirsi della vastità non vuol dire necessariamente trascendere la linfa terrestre di cui è composto il nostro quotidiano o scansare la realtà, ma il contrario, cioè è il tentativo di un incontro tra le due diverse sfere dell’esistenza: la materia e lo spirito.
Grazie Salvatore! Vorremmo dire molto di più, ma le regole del blog non consentono uno sviluppo di questo meraviglioso e vasto argomento in modo esaustivo. Ci promettiamo, però, di riprenderlo in altra occasione come base di un dibattito a più voci.
L’epoca delle varianti poetiche. La poesia di rischiare e rischiarare la vita.
Vengo da una famiglia di musicanti
dove cantare era una preghiera.
Alda Merini
Così Alda Merini descriveva la sua famiglia, anche se figlia di un assicuratore e di una casalinga. La poetessa sente di aver inaugurato un canto, avendolo respirato da bambina, nelle sillabe materne e paterne. Così segue una traccia, un indizio di felicità e intuisce che la poesia è una materia che si muove “entro le varianti” (Mengaldo). Questo scansarsi dalla realtà del dato muto ed incontrovertibile – quella in cui un assicuratore non può essere un musicante – per farsi prossima ai doni della fantasia e dell’utopia è una cifra dell’esistenza di una donna che diviene poesia perché capace di accogliere la possibilità di schiudere mondi altri, mentre compone versi di mirabolante profondità, non svuotati di linfa terrestre, ma pieni di essa; e la cosa più mirabile è che certe metamorfosi siano potute avvenire tra le mura di un manicomio abitato per un ventennio. Perché la poesia è misurare il perimetro di un dolore, sondando spazi e tempi di una reclusione.
Nel tentativo di penetrare questo tempo di caotiche ingiustizie, è lecito chiedersi perché il passo scandito dalla Merini al ritmo di varianti poetiche ci possa portare dentro e oltre la crisi epocale che stiamo vivendo. Non certo per un puro esercizio di evasione dalla realtà, o per evitare di inabissarsi nella crudezza e semplicità delle cose; piuttosto si sceglie la variante poetica per cambiare e per andare incontro a se stessi, per scomporre il mondo rimanendogli fedele e per compiere “miracoli alla buona”, adottando un verso di un’altra donna-poesia, Wislawa Zimborska.
Solo chi sceglie una movenza poetica per la propria esistenza può dirsi davvero poeta, e il solo comporre versi non può bastare a partorire il mondo; soprattutto nel “tempo della povertà” (Heidegger) attuale, ancora così sospeso e liminale, un tempo che costringe a rimanere ai bordi, tra le periferie dell’anima; in mezzo ad esse, in-betweennes. In questo continuo dispiegarsi di ombre, dunque, appare necessario coltivare gli echi di un lessico che, evocando mondi lontani e sommersi, possa aiutare a dirimere ciò che è sano da ciò che può minare il nostro già provato equilibrio psico-fisico.
Quanto è vasta la dimora della cura? Almeno quanto è profondo il precipizio del possibile dolore che possiamo provare nell’allontanarci da noi stessi e dagli altri in quest’epoca di passioni tristi (Spinoza). Come dare volto e nome a questo dolore? Nelle parole di Alessandro Bergonzoni, uomo di teatro, una possibile destinazione e rivelazione:
Tra i credenti e i non credenti, io scelgo gli incredibili. Io faccio voto di vastità
Meravigliose le parole che Don Angelo Casati, prete di città, scrittore e poeta, nel suo “Il sorriso di Dio”, sceglie per commentare questo pensiero:
Oso pensare che Dio sorrida per chi si lascia trascinare dalla passione per questa umanità, per questa terra, per questo tempo. Oso pensare che Dio sorrida per gli incredibili, per i figli che fanno voto di vastità.
Un dolore, spesso, è tanto più acuto quanto più in noi agisce la scelta di evitare il confronto con l’altro, perché non invada con il suo corpo-parola i nostri confini tracciati. Invece, con un dire che rompe il ritmo incessante delle quotidiane nostre certezze, Bergonzoni e Casati ci consegnano il gusto di essere “incredibili”, perché disposti ad accogliere la meravigliosa tensione ad essere ladri di vita. Ladro di vita è chi osa abitare la vastità e la polifonia delle cose, prostrandosi ad essa e ascoltandone il suono cangiante. L’immersione nell’accettazione che l’altro è risorsa imprescindibile per ciascuno rende possibile qualsiasi solitudine o desiderio di intimità, con la natura, con gli umani, e con ogni forma di trascendenza. Solo dopo aver sfiorato molte mani “straniere”, possiamo dire di avere mani che sanno accogliere il dolore, per renderlo esperienza trasformativa, generatrice di nuove posture verso gli enigmi del mondo. In questo cammino generativo di trasformazione e cambiamento, la poesia può davvero fare da lampada che rischiara e getta nuova luce sulla natura dilemmatica dell’esistenza.
Ripercorrendo le tracce – ferite e discorsi – delle varianti che solo la poesia sa offrire, si può alimentare un racconto buono, che tracci con voce leggera e potente le linee dei nostri oggetti d’amore, i segni del nostro desiderio profondo, impronte di una possibile guarigione. Quanto la poesia può davvero aiutarci a vedere in un mondo che si ciba di cecità? In quale porto attraccare per riacquisire speranza in questa incerta navigazione fatta di intermezzi tra tempesta e tempesta? Proprio come Prospero nella “Tempesta” di Shakespeare dovremmo esser capaci “di comprendere molto e accettare il resto”. Ed ecco che ci viene incontro la favola della poesia, per scomporre l’invisibile e interrogare l’“innominabile attuale” (Calasso), lungi dal perseguire a tutti i costi un lieto fine.
Vivere poeticamente richiede il più delle volte una vocazione per le scelte rischiose, quelle in cui, ad un bivio, si può essere sorpresi dalle ombre. Ma per scardinare la crudeltà degli eventi non si può che riconoscere l’urgenza di abbandonare comode certezze, per accogliere le varianti, in primis nel vissuto e nel fare dispiegante e dirimente di ciascuno. Il rischio è quello di sentirsi esposti come fiori su un precipizio; ma non è forse questa la condizione migliore per guardare ad un vivere più umano che ci aiuti a tornare tra chi ci somiglia, tra gli uomini?!
Rischioso, ma necessario, potrebbe essere continuare a guardarsi dentro contando dolori e coltivando sorprese, per mettere in discussione ciò che si ritiene per lo più giusto e politicamente corretto; rischioso, ma salvifico, di questi tempi, potrebbe addirittura risultare il citofonare al proprio vicino di casa per una chiacchierata, benché una porta aperta sappia essere spesso il discrimine tra la vita e la morte. Davvero troppo rischioso è il paradosso di non volersi abbandonare alla poesia di una scelta coraggiosa, per non rimanerne delusi e disillusi. Dalle delusioni le disillusioni, dai rischi i disincanti.
Nel cammino verso l’accettazione dei possibili fallimenti ci fa compagnia il Prospero di Shakespeare, evocato poco fa: siamo chiamati a comprendere molto, accettando che la vita e gli eventi spesso ci superano e ci precedono nel loro incessante ed inesorabile divenire. E allora non può bastare l’equilibrio dei dati incontrovertibili, ma abbiamo bisogno dello stupore, quello da cui parte ogni scienza oltre che qualsiasi forma di poesia.
Nell’immensamente piccolo buco spazio-temporale in cui siamo, che per comodità chiamiamo epoca del coronavirus, può essere utile tanto saper ascoltare il suono di un ruscello o il canto degli uccelli quanto l’esser capaci di interpretare dati matematici e curve statistiche. Non abbiamo scelta, la scienza non può che tendere ad una fusione con la filosofia e la poesia. Prima o poi ci accorgeremo che l’uomo è fatto per urlare all’abisso il suo incantamento e per divenire poesia. O forse no, e allora avremo operato un sabotaggio.
Perché ciò non avvenga, mi piace stabilire un contatto con le parole di una scrittrice che è anche mia vicina di casa e amica nella parola, Vilma Cretti: “non so ancora se il vento mi accarezzerà la pelle o me la porterà via”. Quasi un testamento questo dire che rischiara il senso di un cammino che non può e non sa donarci troppe certezze, la vita.
Infine – dove si comincia si riesce pur a scorgere una fine – una poesia:
Contiamo
(A chi ogni giorno impara a contare)
È tutta una conta questa notte,
tempo di lasciti e testamenti.
Contiamo i figli e le stanze
mai troppo grandi
per contenere gli armadi
e soprattutto gli scheletri.
Contiamo nel portafoglio,
dove i soldi convivono con le identità
stanno insieme al fronte-volto di chi è partito
e al verso-parola di chi è rimasto.
Contiamo i battiti del cuore
lo facciamo tra una paura del morire
e il trovare un vivere.
Contiamo i morti,
numeri innegabili,
gli unici possibili.
Amiamo troppo il futuro
e non contiamo il presente,
incagliati tra passato e passare.
In fondo questa vita sta lì,
nel numero dei cappelli indossati
e di quelli levati per dire grazie,
in un profumo di matematiche antiche,
di inchini smarriti e gentilezza velata.
Contiamo i dolori
e coltiviamo sorprese
col rischio di non capirle.
Contiamo il buio
che è solo un interruzione
tra comparse di luce.
Infine, tuttavia,
dopo aver contato tutta una vita
smettiamo di contare.
Salvatore Brasile
Salvatore Brasile (1985) è un insegnante di lettere di origini campane che vive a Dro (Trentino) dal 2014. Le ragioni della sua vita insieme alla famiglia sono il suo lavoro, l’impegno nel sociale e la poesia.