“Sto ‘cca” la bellissima poesia di Eduardo De Filippo

Guido Parisi

Questa poesia, scritta da Eduardo nel 1963 per sua moglie Isabella Quarantotti, è una composizione in lingua napoletana di rara bellezza. Anche la loro storia d’amore ha qualcosa di insolito e straordinario. Chi ha la possibilità di leggerla lo faccia. Non era la coppia di anziani vissuti insieme dal primo innamoramento fino alla morte, no, assolutamente no. Entrambi avevano avuto due matrimoni alle spalle, figli, una vita intensa, piena di eventi e situazioni imprevedibili. Voglio rimarcare che siamo nella prima metà del ‘900, tempi non facili in qualsiasi aspetto, prima di tutto per quel certo puritanesimo di cui era impregnata la società italiana. Un grande amore insomma, cresciuto e vissuto all’ombra del palcoscenico in cui realtà e finzione spesso si confondono.

L’ho già pubblicata qualche tempo fa sulla pagina FB ArteCultura. Oggi la ripropongo spendendo qualche parola in più perché, da quando insegno la lingua italiana a studenti stranieri, non c’è stata una nazione in cui io non abbia trovato curiosità e interesse per questo idioma parlato in una vasta area dell’Italia del sud e comunemente chiamato dialetto, mentre è una lingua a tutti gli effetti e le cui espressioni culturali (letteratura, teatro, musica, eccetera) non sono seconde a quelle di altri popoli.

Già che ci siamo dovete almeno sapere che per diverse volte il napoletano sarebbe potuto essere la lingua ufficiale dell’Italia meridionale. L’imperatore Federico II voleva che fosse così, ma gli si contrappose il papa Innocenzo IV perché Federico non volle partecipare ad una ulteriore crociata. In effetti lui si rifiutò in quanto reduce da protagonista della sesta crociata. Allora il papa nel 1245 lo scomunicò e ordinò che tutte le bolle statali e i cedolari legislativi della penisola italiana dovessero servirsi del linguaggio fiorentino, il cosiddetto Latino-Volgare.

Va comunque ricordato, dato che questo articolo è principalmente rivolto a lettori non italiani che ci seguono soprattutto perché appassionati e innamorati dell’Italia, che la nostra Penisola, per ragioni storiche e geografiche estremamente complesse da spiegare in questa sede, è solcata in lungo e in largo da idiomi (lingue/dialetti) che tramandano e continuano ad arricchire le loro espressioni culturali. L’italiano, così come lo si parla oggi, è relativamente recente se paragonato ad altre lingue europee. E’ stato grazie al cinema e ai mezzi di comunicazione di massa che è stato accettato e parlato a livello nazionale (e tuttora non lo è del tutto). La lingua napoletana, rispetto alle altre italiche, ha avuto almeno due marce in più che l’hanno resa più popolare e attrattiva nel mondo: la prima è la canzone, la seconda è la forza di seduzione del suo suono, della sua fonia che, una volta conosciuta, non ti lascia più. Devo confessare che all’inizio della mia carriera, non riuscivo a capire l’interesse di un giapponese o di un cinese, di un tedesco o di un finlandese per la mia lingua di provenienza. Tutto mi fu assolutamente chiaro quando fui invitato dal direttore di dipartimento di italianistica dell’Università di Turku ad organizzare e svolgere un corso semestrale di cultura napoletana per studenti scandinavi che si rivelò, con mio grande stupore, l’esperienza forse più coinvolgente ed interessante della mia vita di insegnante. All’inizio di ogni lezione scrivevo un proverbio o un detto napoletano alla lavagna, e dopo averlo letto lo facevo ripetere agli studenti, sicché, mi veniva da sorridere quando li incrociavo nei corridoi o per strada e mi salutavano dicendomi:..” Ogne scarrafone è bell’ a mamma soja.”  Cosa vuol direOgni scarafaggio sembra bello alla propria madre, cioè: l’amore di una mamma per i propri figli è immenso.

– E che cosa ti piace così tanto in questa lingua? – chiedevo io.

– La fonia, la musicalità, – mi sentivo rispondere.

– Ma anche la lingua italiana è musicale…

-Però non è la stessa cosa.

-Che cosa vuoi dire?

– Nella lingua italiana manca lo shevà

(Lo scevà è un suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono, di scarsa sonorità)

-E’ vero dicevo io, è una giustissima osservazione… That makes the difference!… Lo shevà non è naturalmente tutto, ma è certamente un collante fonico che la lingua italiana non possiede.

-Poi la vocalizzazione è molto diversa

– Certamente.

Ecco, la scuola è proprio un do ut des. Non solo gli studenti imparano dagli insegnanti, ma spesso, anche gli insegnanti dai loro studenti.

Ebbene, adesso, per chi ne ha voglia, proporrei di fare un esperimento. Vi trascrivo la poesia in italiano e in napoletano. Poi ascoltatela più volte servendovi della registrazione che segue. Ripetetela ad alta voce quando ne avrete il tempo e soprattutto soffermatevi su alcune espressioni che per forma sia concettuale che linguistica penetrano ed inebriano tutto il vostro essere toccando le corde più sensibili dell’emozione. Come le seguenti:

Sto ccà, Isabè, sto ccà…

Me truove quann’ ‘o sole tras’ ‘e squinge
se mpizz’ ‘e taglio
e appiccia sti ccurnice
ndurate
argiento
grosse e piccerelle
‘e lignammo priggiato –
acero
noce
palissandro
mogano –
…..

‘O viento straccia ‘e nnuvole
e comme vene vene,
e può truva ciert’uoccie
ca te guardeno
sott’ ‘a na fronta larga larga
e luonga
e ddoje fosse scavate…
‘e può truvà.

Sono qui Isabella, sono qui
Non mi vedi?
Già non mi puoi vedere ma sono qui.
Sono tra i libri, tra le carte antiche, dentro i cassetti del comò.
Mi trovi quando il sole entra e accende le cornici dorate d’argento,

grandi piccole di legno pregiato, noce acero mogano e palissandro, sembrano finestrelle aperte sul mondo.
Mi trovi quando il sole diventa rosso e prima di tramontare indora i rami degli alberi

e si inserisce tra le foglie per farsi guardare

Altrimenti mi puoi trovare, quando si fa sera, in cucina

mentre mi preparo qualcosa per riempire lo stomaco,

un pizzico di formaggio e un po’ di insalata prima di addormentarmi
Poi mi trovi all’Alba, seduto a tavolino con la penna tra le dita e gli occhi verso il cielo

pensando a ciò che t’ho raccontato e non ho scritto
E chissà se non sia stato un bene che si siano persi questi pensieri distratti che stanchi d’esser pensati vagano per l’aria insieme a me
E se guardi per l’aria può succedere

che mi trovi tra le nuvole e che il vento strappi le nuvole e tra esse tu trovi due occhi che ti guardano…

VERSIONE ORIGINALE

Sto ccà, Isabè, sto ccà…
Ch’è, nun me vide?
Già, nun me può vedé…
ma stongo ccà.
Sto mmiez’ ‘e libre,
mmiez’ ‘e ccarte antiche,
pe’ dint’ ‘e tteratore d’ ‘o cummò.
Me truove quann’ ‘o sole tras’ ‘e squinge
se mpizz’ ‘e taglio
e appiccia sti ccurnice
ndurate
argiento
grosse e piccerelle
‘e lignammo priggiato –
acero
noce
palissandro
mogano –
pareno fenestielle e fenestelle
aperte ncopp’ ‘o munno…
Me truove quann’ ‘o sole se fa russo
primmo ca se ne scenne aret’ ‘e pprete
ndurann’ ‘e rame ‘e ll’albere
e se mpizza
pe’ mmiez’ ‘e fronne,
pe se fa guardà.
Si no, me può truvà, scurato notte,
rint’ a cucina
p’arrangià caccosa:
na puntella ‘e furmaggio,
na nzalata…
chellu ppoco
ca te supponta ‘o stommeco
e te cucche.
Primmo d’ ‘a luce ‘e ll’alba
po’
me trouve a ttavulino,
c’ ‘a penna mmiez’ ‘ ddete
e ll’uocchie ncielo
pensanno a chello ca t’aggio cuntato
e ca nun aggio scritto
e ca
va trova
si nun è stato buono
ca se songo perduto sti penziere
distratte
e stanche d’essere penzate
che corrono pe’ ll’aria nzieme a me.
E si guarde pe’ ll’aria
po’ succedere
ca si ce stanno ‘e nnuvole
me truove.
‘O viento straccia ‘e nnuvole
e comme vene vene,
e può truva ciert’uoccie
ca te guardeno
sott’ ‘a na fronta larga larga
e luonga
e ddoje fosse scavate…
‘e può truvà.

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