Qual è il “vero” sardo? Logudorese, campidanese o altro? Dialetti o lingue? Si tratta di uno dei quesiti più comuni posti dai sardi di fronte al dilemma espresso dalla propria lingua madre. Cerchiamo di fare chiarezza.
Tra le domande più diffuse fra i sardi, paradossalmente, ne esiste una in particolare che porta a galla la scarsa conoscenza dell’isola nei confronti della sua stessa lingua. E si può riassumere nella seguente domanda: qual è il “vero” sardo?
Prima di fornire la risposta bisogna comprendere la natura culturale del quesito. Chiedersi se esista un sardo “autentico” significa immaginare l’esistenza di una lingua originaria stanziata in un preciso spazio geografico e sociale, a cui farebbe/ro da contraltare una o più lingue, anch’esse identificate come “sarde” ma in qualche misura “meno pure” di quella originaria. Vere e proprie lingue alternative tacciate così di essere clonate da quella “vera”, o tutt’al più versioni meno nobili della prima.
Esistono precise ragioni politiche ed economiche per le quali numerosi sardi sono pervenuti a tale visione. Una visione che parte da presupposti sbagliati e che dunque porterebbe a non capire il senso della risposta. Ma proviamo a darne una definizione di sintesi:
Sul piano tecnico non esistono diverse lingue sarde distinte l’una dalle altre allo stesso modo in cui vengono distinti, ad esempio, l’inglese dal francese: esiste un solo sistema linguistico sardo. Più volgarmente, esiste una sola “lingua sarda”. Tale lingua rappresenta infatti un sistema formato da una varietà di parlate diffuse e distribuite in tutto il territorio dell’isola.
In altri termini, possiamo affermare che il sardo si distingue in una varietà di “dialetti”, nessuno dei quali rappresenta una “lingua originaria” rispetto agli altri. Quelle che percepiamo come “lingue diverse” del sardo e che in maniera approssimata vengono distinte in “logudorese” e “campidanese” (come se esistesse una chiara frontiera geografica che separa la Sardegna settentrionale da quella meridionale), nel momento in cui le sentiamo parlare, riguardano prevalenti differenze di natura fonetica, morfologica e sintattica, variamente classificate.
Per far comprendere i lettori non esperti di linguistica, ma neppure di politica linguistica, possiamo utilizzare l’esempio dei sinonimi presenti nella lingua italiana. In essa, la parola “babbo” è sinonimo di “papà” e “padre”.
Direste che si tratta di due o tre diverse lingue italiane? Ovviamente no.
Applicate lo stesso principio alla lingua sarda espressa nelle sue varie parlate che, qualora politicamente definite come “lingue”, potrebbero variare da un massimo di due fino alle centinaia presenti nei vari Comuni sardi.
A tale proposito, un altro elemento di cui tenere conto riguarda la distinzione tra “lingua “ e “dialetto”. Sul piano linguistico non vi sono differenze tra i due; sul piano politico invece si. Generalmente si definisce “lingua” quell’idioma che accompagna l’individuo nell’ambito della sua sfera pubblica e privata; mentre definiamo “dialetto” quell’idioma posto in secondo piano o escluso dalla sfera delle relazioni pubbliche dell’individuo. Soprattutto quelle di carattere formale (rapporti con la pubblica amministrazione, nonché con la cultura ed i servizi emanati dalle sue istituzioni).
In Sardegna lo Stato italiano, sin dall’epoca sabauda, ha cercato di elevare la lingua italiana in posizione dominante, derubricando tutte le altre minoranze territoriali (e nazionali) al ruolo di “dialetti”. Peraltro impropriamente considerati incolti e privi di una letteratura di pregio.
Già nel 1927, ben prima che Gramsci argomentasse la sua nozione di egemonia culturale, Ludwig Von Mises inquadrò la classica tendenza di numerosi Stati-nazionali, in particolare quelli sorti nei due secoli precedenti, ad egemonizzare il controllo della lingua come strumento di dominio culturale delle minoranze ricadenti sotto alla sua autorità.
Con l’espansione del suffragio universale e la progressiva crescita dello Stato nella vita dei singoli individui si alimentò un conformismo culturale tale per cui, oltre alla matrice politica, si associò l’idea che il progresso avrebbe dovuto essere alimentato dall’alto verso il basso, valorizzando i tratti unificanti di una popolazione (anche tramite l’artificiosità e l’imposizione di una lingua), a scapito di tutti quegli elementi che avrebbero potuto rallentare il processo di costruzione di una nuova nazionalità (nel nostro caso, quella italiana, a scapito delle minoranze linguistiche).
L’ingegneria sociale della “nation-building” ha così inasprito il virus della subalternità culturale a vantaggio della centralizzazione amministrativa. I “dialetti” divenivano così espressione di povertà e arretratezza, mentre la lingua sostenuta dallo Stato diventava emblema del “progresso”.
Ancora oggi, l’illiberale ideologia accentratrice dello Stato, unita alla visione costruttivista di Bruxelles, foriera di una favola socialdemocratica dedita alla creazione di uno spazio della felicità in terra, ma in realtà tesa a distruggere ogni minoranza a vantaggio delle culture linguistiche degli Stati di maggiori dimensioni, continua a diffondere l’idea che vi siano lingue privilegiate contrapposte a “dialetti” chiusi ed arretrati.
Recentemente, un organismo internazionale non UE, il Consiglio d’Europa, ha ripreso la Repubblica Italiana per l’inosservanza del rispetto della lingua sarda. Mentre, pensate, il liberalismo svizzero ha costituzionalizzato il diritto all’esercizio del plurilinguismo nel quadro della sua confederazione.
Come risolvere questi limiti?
In primo luogo tramite una standardizzazione linguistica, ma che non può passare per la stessa matrice istituzionalista che ha generato i suddetti problemi. In secondo luogo tramite la comprensione del valore rappresentato dalle singole culture linguistiche, le cui ricadute non hanno un’esclusiva dimensione sociale e culturale ma persino politica ed economica, e che non sono in contrasto con le lingue internazionalmente più diffuse.
Testi consigliati:
– Giuseppe Corongiu: Il sardo, una lingua normale (Condaghes 2013),
– Roberto Bolognesi: Le identità linguistiche dei sardi (Condaghes 2013),
– Adriano Bomboi: L’indipendentismo sardo (Condaghes 2014),
– Alessandro Mongili: Topologie postcoloniali (Condaghes 2015).
Fonte: Sa Natzione.eu